Tomaso Binga

Io sono Io. Io sono Me  dal 23/05/2025 al 12/09/2025

Galleria Tiziana Di Caro Piazzetta Nilo, 7 Napoli (NA)


Tomaso Binga In occasione del Napoli Gallery Weekend la Galleria Tiziana Di Caro presenta Io sono Io. Io sono Me, la quarta mostra personale nei suoi spazi di Tomaso Binga (alias Bianca Pucciarelli Menna, Salerno, 1931), che inaugura venerdì 23 maggio 2025, alle ore 11:00.

Il progetto attraversa l'intero arco creativo dell'artista seguendo il filo conduttore della scrittura in quanto elemento segnico o narrativo che nell'ambito di una produzione oramai ultra cinquantennale, si snoda in diverse declinazioni insistendo su un principio che l'artista ha sempre declamato e difeso: la scrittura deve avere un intento subliminale, deve agire a prescindere dai significati che essa esprime, o dai suoni che ogni parola emette. In tal senso la scrittura è “scrittura silenziosa”.

Il titolo della mostra è preso in prestito da un'opera del 1977, un dittico fotografico in cui la grafia, si inserisce nella fotografia e inquadra il corpo attraverso la cosiddetta “scrittura vivente”. Io sono Io. Io sono Me è l'opera in cui l'insistenza del pronome personale indica la riappropriazione dell'identità soggettiva, della propria autonomia, della propria indipendenza.

Ed è di questa autonomia e di questa indipendenza che Tomaso Binga si è fatta portavoce per l'intera carriera, non facendosi assoggettare mai dalle mode, piuttosto procedendo con determinazione e coerenza, sia dal punto di vista artistico che da quello più squisitamente personale.

Le prime opere in cui compare la scrittura risalgono all'inizio degli anni Settanta. L'artista utilizza quella che fu poi definita come Scrittura desemantizzata : un segno sottile, essenziale che si manifesta a prescindere dal suo significato, anzi che quel significato vuole celare, quasi a volerlo sovvertire. La scrittura desemantizzata è data da segni ruvidi e ripetitivi. La parola diventa immagine, si ammutolisce, e nonostante questo si rivela nella sua esistenza in maniera costante.

Nei Ritratti analogici i soggetti sono rappresentati attraverso le iniziali del nome e del cognome, integrati da elementi figurativi, che evocano alcune caratteristiche tipiche delle persone ritratte. Le lettere soppiantano la descrizione fisionomica. Nei Grafici d'amore l'elemento narrativo è al cospetto del racconto relativo alle relazioni sentimentali.

In alcuni casi la scrittura conserva il suo valore semantico, eppure questo risulta celato perché la grafia non è chiara, non è leggibile, ma si presenta come un segno, ma con la dovuta attenzione può essere decodificata. Lo si vede in alcuni esempi dei suoi Polistiroli. Il Polistirolo ha una sua identità forte: si tratta di collage su imballaggi di polistirolo per l'appunto, oggetti tridimensionali che contengono immagini. Eppure molti di loro diventano luoghi in cui la scrittura si descrivendo concetti. Ma può una scrittura desemantizzata realmente descrivere? Come la stessa Binga disse un giorno: “Scrivere non è descrivere” (locuzione con cui aveva voluto intitolare la sua prima mostra personale con noi nel 2015), ed è proprio questo l'assunto che regola la gran parte del suo sistema creativo.

Alla fine degli anni Settanta lo spirito esplorativo la induce a utilizzare uno strumento meccanico: la macchina da scrivere, con la quale dà vita al Dattilocodice. Un giorno per puro caso sovrappone due diversi grafemi generando un segno altro. I due grafemi dunque non sono più riconoscibili e assumono un senso nuovo e completamente diverso. Il risultato di tale sovrapposizione seppur non riconoscibile risulta ad ogni modo rivoluzionario, perché rappresenta il recupero – invenzione dell'archetipo linguistico attraverso la tecnologia.

Negli anni Ottanta Tomaso Binga insiste ancora sull'idea che “scrittura” non significa necessariamente “descrizione”, eppure il segno cambia per aderire a una dimensione più pittorica. Nei Biographic esso si dilata, ingigantisce, vibra e si colora. I soggetti sono grandi lettere che si impongono sulle superfici, spesso di carta da parati, come se fossero delle figure.

Negli anni Novanta la scrittura e la pittura si incontrano nuovamente e le serie Scripta Picta e Scritture catodiche ne sono la testimonianza. La scrittura si diffonde lungo traiettorie inclinate, diagonali lungo le quali si inseriscono macchie di colore, intense epifanie cromatiche: la scrittura per osmosi diventa pittura (Tomaso Binga).

Se negli anni Settanta Tomaso Binga subisce la fascinazione della macchina da scrivere, è chiaro che lo stesso accade qualche decennio più tardi con il computer. Gli Alphasymbol ricordano il Dattilocodice. Ma qui non c'è la sovrapposizione, bensì la ripetizione sistematica di simboli, fino a formare delle composizioni quadrate. Il susseguirsi di elementi tutti uguali tra loro, l'ostinazione quasi petulante delle dita sempre sullo stesso tasto del computer, crea un paradossale smarrimento, che confonde la percezione del simbolo stesso: si tratta di una saturazione semantica, che senz'altro ci riporta ancora una volta verso l'idea di una scrittura silenziosa.


Tomaso Binga è un'artista e poetessa italiana, nata a Salerno, nel 1931. Dagli anni Sessanta vive e lavora a Roma.
In arte ha assunto questo nome per contestare con ironia e spiazzamento i privilegi del mondo maschile.
Si occupa di scrittura verbo-visiva ed è tra le figure di punta della poesia fonetico – sonora - performativa italiana. Fin dal 1971 la pratica dell'arte come scrittura è al centro dei suoi interessi.

Il suo lavoro è stato esposto al Museo di Castelvecchio, Verona (1977), Biennale di Venezia (1978), Biennale di San Paolo (1981), XI Quadriennale, Roma (1986), Fondazione Prada, Milano (2017), Mimosa House, Londra (2019), Biennale di Venezia (2022), Fondazione Dalle Nogare, Bolzano (2022), La Galerie a Noisy-Le-Sec, Francia (2023), Mudam Luxembourg - Musée d’Art Moderne Grand-Duc Jean, (2023).

Attualmente la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee – museo Madre presenta la sua più ampia retrospettiva museale intitolata “Euforia Tomaso Binga”, a cura di Eva Fabbris con Daria Kahn, exhibition design Rio Grande.


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