PIERO DORAZIO. Nel labirinto del colore-luce

Carte 1948-1998  dal 31/05/2012 al 07/07/2012

  Roma (RM)


PIERO DORAZIO. Nel labirinto del colore-luce Giovedì 31 maggio 2012 alle ore 18.30 inaugura a Roma, presso la Galleria d’arte Marchetti, la mostra PIERO DORAZIO – NEL LABIRINTO DEL COLORE-LUCE - Carte 1948-1998 (a cura di Silvia Pegoraro), che sarà visitabile fino al 7 luglio . Si tratta di un evento importante, in quanto da diversi anni non venivano dedicate mostre personali al grande astrattista italiano scomparso nel 2005, né pubblicati cataloghi delle sue opere . In esposizione una ventina di lavori su carta che documentano il percorso di Dorazio dal 1948 al 1998. Catalogo Edizioni Grafiche Turato, con introduzione critica della curatrice e un testo di Dorazio del 1993 dedicato a via Margutta com’era fino agli anni ’60, in omaggio alla storica strada romana in cui ha oggi sede anche la Galleria Marchetti che ospita la mostra.
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Piero Dorazio credeva fermamente nella necessità di un intervento a tutto campo dell’artista nella società, un intervento prima di tutto affidato all'opera d'arte, ma sempre affiancato dalla teoria. Una teoria che non ha fini esclusivamente formali, ma è rivolta essenzialmente a tutelare la libertà degli artisti da ogni condizionamento. “L’impegno umano e politico non doveva interferire con quello creativo e artistico, che è di altro ordine e di altra natura. L’arte non può essere distratta dal suo cammino, che è naturalmente rivoluzionario, e diventare strumento di persuasione per fini politici”, scrive Dorazio nel ‘76, nel saggio introduttivo a una mostra di del gruppo “Forma 1”, da lui co-fondato nel 1947 . Trasferitosi a New York nel 1953, aveva tenuto qui la sua prima personale, continuando però anche un intenso lavoro di divulgazione a favore dell'arte italiana e frequentando i più importanti pittori astratti americani. La personalità artistica del pittore romano si rivela un perfetto connubio di dati scientifici, psicologici e poetici, che caratterizza tutta la sua opera: la capacità di conciliare in essa i valori strutturali e i valori percettivi-emotivi del colore. Ciò che si avverte in Dorazio è infatti un senso di ricerca indefessa, di attenzione infinita, di acutissima tensione emozionale e di dedizione assoluta nei confronti di quell’entità assolutamente evidente, eppure irriducibilmente enigmatica, che è il colore . Ecco allora la sottile ambiguità del segno pittorico, sospeso tra la dissoluzione della geometria e la costruzione di delicatissime geometrie, criptiche, sommerse da fitte o diafane tessiture di linee e colori. Linee che fra l’altro, in quanto indici e vettori della materializzazione cromatica di energie spaziali invisibili, rimandano spesso alle tese e dinamiche linee-forza del Futurismo, puntate verso l’infinito. Quel Futurismo che Dorazio studia ed apprezza nell’immediato dopoguerra, comprendendone appieno l’importanza e il valore storico ed estetico, in anni in cui esso era assolutamente rimosso, e ricordarlo era quanto di più politicamente scorretto si potesse fare. Il suo precoce interesse per quel grande movimento d’avanguardia è testimoniato da una serie di articoli scritti nel ’48 per “Il Giornale della sera” di Roma, che raccontano anche dei suoi soggiorni a Parigi e in Europa, dei suoi incontri con artisti come Braque, Matisse, Mirò, e dell’importanza che questi hanno avuto nella sua formazione. Il lavoro che apre il percorso di questa mostra è proprio un acquerello e tecnica mista del 1948: vi si riconoscono le delicate semplificazioni formali dell’ultimo Matisse, in particolare di alcune figure del libro Jazz, uscito l’anno prima, che certo Dorazio doveva amare; ma i residui iconici vanno rapidamente dissolvendosi, verso le nervose campiture astratte di Alberto Magnelli, o soprattutto, forse, per il predominare di linee curve e “organiche”, verso l’astrattismo “biomorfo” di Jean Arp . Proprio da lui forse viene a Dorazio la spinta decisiva verso il linguaggio astratto: dall’ambiguità e dalla plurivalenza delle sue forme, che appaiono coinvolte in un ciclo di eterna trasformazione, in cui legge e caso vanno a confondersi. La tempera-collage del ‘55 segna l’inizio di un decennio magico per la pittura di Dorazio, che passa via via dalla costruzione spaziale rigorosamente geometrica - che qui ancora vediamo - alla predominanza della texture cromatica, che caratterizzerà il suo lavoro sino alla fine, sia pure secondo diverse modalità e configurazioni. Il 1955 è significativamente l’anno della mostra tenuta con Perilli alla Galleria delle Carrozze di Roma, non per nulla intitolata Colore come struttura. In questo lavoro, la netta e semplice scansione geometrica – che può ricordare quella di astrattisti come Reggiani e Radice – si unisce però ad una sensibilità cromatica quasi tattile, che denuncia come a quest’epoca Dorazio abbia già iniziato, parallelamente, a trattare le superfici come un tessuto inquieto di segni-colore. Lo vediamo all’opera, in questo senso, in una carta splendida benché piuttosto anomala del ’57, anno della prima mostra personale italiana, presso la Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, a Roma: qui il bianco torna direttamente protagonista, in un dialogo serrato quanto mosso e dinamico, insolitamente “destrutturato”, con filacciose pennellate nere e freschissimi “graffi” e tocchi cromatici, non lontani da certe “scritture” pittoriche di Twombly, che oltre a frequentare la “Fondazione Origine” (di cui lo stesso Dorazio fece parte per qualche anno), era anche un artista della Tartaruga, dove tenne la sua prima personale europea l’anno dopo quella di Dorazio (1958). Proprio nel 1958 Dorazio dipinge una serie di quadri monocromi, sulle dominanti nero-grigio-blu, in cui la struttura grafica si identifica con l'applicazione del colore a tratti, prima paralleli, poi convergenti e incrociati. Una sostanziale monocromia impostata su questi toni spenti è anche quella dei “reticoli” del ’58 e ’59 qui presentati: Dorazio sviluppa l'esperienza dei “reticoli” fino al ’62, organizzando la materia cromatica in un tessuto fittissimo e complesso di linee rette incrociate, che svolge sulla superfìcie un ruolo fondamentale di modulazione e filtro della luce. A partire dal 1962-63 i valori cromatici si accendono, e Dorazio studia vere e proprie partiture di scale cromatiche, atte a far scaturire una luminosità sempre più intensa dalle modulazioni tonali, così come dimostrano gli affascinanti pastelli su cartoncino del 1962. Lo spazio va assumendo sempre di più la fisionomia di un campo di forze luminose: le linee dei “reticoli” vanno allargandosi in grandi bande splendenti, che creano un forte effetto di risonanza cromatica.
Dalla fine degli anni '70 il tessuto cromatico si satura di finissimi tracciati di segno-colore ad andamento orizzontale o verticale (come nelle tempere su cartoncino del 1982), sino a prendere invece, negli anni ’90, la via opposta: quella dell’alleggerimento, della rarefazione, che porta a far fluttuare delicati filamenti di linee-colore in limpide e brillanti campiture monocrome, come nella tempera su cartoncino del ’98, a fondo rosso, l’ultima opera di questo percorso espositivo.
L'esperienza del colore in Dorazio ci appare come esperienza del colore in tutte le sue possibilità: l'esperienza di uno spazio continuo in cui i singoli colori ci appaiono integrati in una struttura relazionale retta da una regola fondamentale, che potremmo definire “esperienza della transizione dei colori”. Lo spazio cromatico si svela come percorso percettivo in cui ogni tonalità trans-colora in un'altra, secondo una gradazione continua e perpetua, scandita però da un ritmo interno, che si “impenna” in quelli che potremmo chiamare punti di massima cromaticità (il giallo, il rosso, il blu puri). In questo senso per Dorazio può essere stata determinante la conoscenza del lavoro di Hans Richter, che aveva conosciuto negli Stati Uniti e che nel 1954 aveva visitato e apprezzato la sua seconda personale americana, alla Galleria Rose Fried, per poi andarlo a incontrare nel suo studio di Roma nel ’57, stringendo così un’amicizia che sarebbe durata per sempre. Già nel 1921 Hans Richter aveva realizzato il film astratto Rythmus 21 : una sequenza ritmica di figure astratte, pure e regolari che interagiscono seguendo solo un ritmo visuale (senza musica di accompagnamento) e si compongono in variazioni sullo stesso tema, nel tentativo di ricreare l’esperienza spaziale tramite un mezzo bidimensionale. Ritmi e assonanze che portano anche Dorazio a modulare il segno-colore in modo da ottenere sinfonie di luce di eccezionale intensità e respiro: quello che Ungaretti, nell’entusiasmo espressionista del saggio critico per l’amico pittore (Un intenso splendore, nel cat. della mostra Piero Dorazio, Im Erker Galerie, Saint Gallen (CH), 1966) tratteggia come un vero e proprio inno all’incandescenza del colore-luce, all’intrecciarsi dei colori in un radioso labirinto:

“In quei suoi tessuti o meglio membrane, di pittura uniforme quasi monocroma e pure intrecciata di fili diversi di colore, di raggi di colore, s’aprono, dentro i fitti favi gli alveoli custodi di pupille pregne di luce, armati di pungiglioni di luce. La luce è infatti in Dorazio, e sarà come realtà di pittura per merito di Dorazio, anche concentrazione e fissazione su un punto di luce riaffiorato da abissi, iterato all’infinito… “



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