Paolo Simonazzi "Mondo Piccolo"
a cura di Andrea Tinterri
dal 27/09/2015 al 21/11/2015
BAG Photo Art Gallery via degli Abeti, 102, Pesaro Pesaro (PU)
Che cos’è quella nebbia, ormai quasi un’icona pop e troppo spesso citata, e cosa ci sta sotto, dentro le case, dentro ai bar, alle trattorie che ancora resistono, che cosa ci sta lungo i marciapiedi, lungo le strade, sulla soglia delle rotaie di Borgoforte? Una narrazione, un linguaggio, un paesaggio codificato, una storia letteraria che va da Guareschi a Tondelli, ci sta il cinema di Mazzacurati, la fotografia di Ghirri, il cantautorato di Guccini e l’Emilia paranoica firmata CCCP. È questo il Mondo Piccolo restituito da Paolo Simonazzi, una nebbia che dura poco, solo il tempo necessario per diradarsi e lasciare scoperto il Mondo, interno ed esterno, di una malinconia naturale, quasi genetica che se non sei abituato ad accettarla e portartela appresso, rischi di rimanerci schiacciato, quasi fosse un’afa malsana, pericolosa, a tratti crudele. Ma che, quasi miracolosamente, riserva sprazzi d’ironia, d’intelligenza creativa, come fosse un modo di sopravvivere in una pianura piatta vicina al Po in cui ci si può rischiare d’affogare.
Esiste qualcosa, perché la cultura è qualcosa che attecchisce come fosse una parietaria su un muro che se la stacchi rimangono le impronte come fossili incastonati: il diario di una vita, di una comunità. Ma forse siamo nella fase di distacco, i riferimenti culturali citati precedentemente si fermano agli anni Ottanta, alla prima metà degli anni Novanta, le comunità stanno cambiando, ibridandosi, mescolandosi, i confini culturali sono sempre meno precisi, più indefiniti. Ed è proprio in questo momento di trapasso che inizia la leggenda, ed è proprio in questo passaggio che può subentrare la fotografia che non è, o non solo, testimonianza, ma racconto utile a costruire una narrazione, a bloccare un paesaggio, a riportarlo all’antico splendore. È anche grazie a questi lavori che si conserva un mito, o lo si costruisce, che si rende omaggio alla propria cultura, quella in cui si è nati e sopravvissuti. Non bastano i segni lasciati dal distacco, bisogna ricostruire la morfologia dell’arrampicata, della crescita della pianta, dell’occupazione del muro, della casa, del tetto, fin dentro le fessure delle finestre. Piccoli mondi di scaffali pieni di roba, di cumuli conservativi, come fossero barriere difensive, per non guardare oltre, per non voler accorgersi che il mondo sta cambiando, che non ci resta che il mito e qualche sparuto fossile trovato nell’afa di un’estate che non vuole finire, sempre più lunga, sempre più calda. Nell’attesa di una nebbia che copra tutto e che permetta di immaginare quello di cui abbiamo voglia, quello che ci tiene ancora in vita, aggrappati ancora almeno per un po’.