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Dalle pieghe più remote della mia memoria affiora vivo un ricordo, sempre quello, significante in sé come tessuto su un tramaglio del tutto ordinario, testimone che il percorso della vita può essere paragonata ad una stoffa ricamata.
Era un’estate torrida, quel genere d’arsura che incide anche la coscienza ed i suoi spazi nascosti, con le giornate talmente distese che traboccavano una sull’altra.
Avevo nove anni.
La sera era calata molto tardi ed ero rimasta fuori a giocare nel giardino sul retro della casa.
Quello che più mi colpiva erano le voci concitate dei miei vicini.
Litigavano. Una giovane coppia di sposi, Lui poliziotto, Lei insegnante, abitavano accanto a noi da tempo, tra le pareti sbiadite ed infissi in alluminio.
In un istante, la notte si spezza.
Lei decide di lasciarlo e lui, disperato, si toglie la vita, sparandosi in bocca. A quell’età la curiosità sovrasta ogni cosa e quando entrai nella casa, il nastro adesivo che sigillava da giorni la porta d’ingresso, non era per me di alcun ostacolo. All’interno le stanze svuotate ferivano lo sguardo ed era come se qualcosa nell’aria chiusa comunicasse l’ingombro del dolore.
Mi ritrovai nella camera matrimoniale.
Il caldo era trafitto dal silenzio, l’armadio scorrevole, a specchio.
Appeso giaceva un abito da sposa chiuso in un sacchetto.
Per un attimo mi apparve un fantasma e l’affanno mi costrinse a sedermi per terra, sorpresa da uno slittamento violento ed improvviso nell’ordine interno.
La vita, la morte, l’amore e la perdita.
L’umanità dipinta in tutte le sue sfumature di rosso.
Ho cominciato a capire il peso della vita.

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