approfondimento di Ernesto Riva
Fin dagli inizi il buddhismo distinse certi valori umani assoluti, universali, validi per tutti, e dei precetti più rigidi la cui osservanza è propria dei monaci. Le cinque regole raccomandate ai laici sono (Panca sila): rispetto della vita, astenersi dal furto, castità, non mentire, non bere bevande alcoliche. Le cinque regole obbligatorie per i monaci, oltre alle cinque precedenti, sono: disciplina nell'ora dei pasti (cioè mangiare nel momento prescritto), non ricercare i piaceri mondani, evitare unguenti ed ornamenti; non usare letti ampi e comodi, non ricevere denaro.
In queste prescrizioni il buddhismo non fu originale: un catalogo simile si ritrova ad es. nello Yoga. L'originalità del buddhismo è altrove. I precetti morali non hanno di mira l'individuo singolo, isolato, che ha di mira la propria salvezza; piuttosto considerano l'uomo come vivente in mezzo agli altri: non basta non fare del male, non basta non uccidere o non offendere, bisogna altresì partecipare amorosi alla vita altrui, avere simpatia per i propri simili, rallegrarsi delle loro gioie e commiserare e alleviare i loro dolori. In altre parole, simpatia e pietà introducono un elemento positivo nella morale; la quale non è più l'eliminazione o cessazione del male ma diventa un comandamento positivo: qualche cosa che bisogna fare, e a fare non per sé ma per gli altri. La morale buddhistica immette cioè nella morale indiana il senso del collettivo.
L'uomo è sì artefice del proprio destino, deve evitare il male e superare le passioni e l'egoismo, ma questa purificazione non è un rigido ed austero estraniarsi dal mondo; essa trova il proprio esercizio e il terreno fecondo nella vita consociata. La morale del laico si differenzia per questo dalla morale dell'asceta il quale necessariamente deve sottostare ad altri obblighi e limitazioni. Il contrasto tra le due morali non è stato forse per nessuna scuola così palese come nel Buddhismo: accanto a quei comandamenti universalmente validi, abbiamo la tecnica sottile, ingiunta ai monaci, per detergere tutte le macchie, distrazioni ed egoismi dal più profondo della mente, e rendere questa cristallina e pura, onde le passioni e il karma conseguente non abbiano più presa sull'uomo. Su questa prassi si innesta il processo della meditazione, dell'ottenimento della perfetta quieta, della soprressione intera della passione, della restituzione della mente alla sua assoluta, immobile serenità. Ma sulla morale laica, riscaldata dai principi della simpatia e della pietà, fiorì lo spirito di rinuncia e di sacrificio che rappresenta il centro del Grande Veicolo. Nel Mahayana infatti l'amore trionfa nella figura del Bodhisattva, che è tutto abnegazione e sacrificio. Le sei o dieci perfezioni che deve praticare il Bodhsattva per tramutarsi in Buddha muovono dalla perfezione della Legge, dalla pazienza, dalla rinuncia di se medesimi, dalla costanza: virtù che l'agiografia tradizionale celebra di continuo ad edificazione dei fedeli, ripetendo le gesta del Buddha. Tale spirito di sacrificio è assoluto, nel senso che non basta sacrificare i propri beni o la propria vita. Il Bodhsattva rinuncia al risultato karmico del bene che compie, e fa voto di assumere su di sé i peccati altrui e trasferire la propria gioia e i propri meriti agli altri. Questo supremo sacrificio si chiama parinamana, trasferimento del karma altrui sul Bodhisattva; esso diventa uno dei fattori necessari della elevazione spirituale e sta a significare l'assoluta abnegazione che deve animare il Bodhisattva.
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