approfondimento di MUSUBI NO KAI
La cerimonia del tè, nella sua essenza, è l'espressione sintetica degli aspetti fondamentali della cultura giapponese. In quanto tale si è conservata nei secoli e nonostante l'inevitabile commercializzazione, avvenuta nell'immediato dopoguerra, è riuscita a preservare la sua simbologia al di là dell'innegabile aspetto folkloristico ad essa connesso.
Il
tè, bevanda meno arrogante del vino,
non egocentrica quanto il caffè e non così innocua quanto il
cacao, fa il suo ingresso in Europa attorno alla metà del 1600
ma era già conosciuto ed apprezzato nel mondo orientale almeno
dall'VIII secolo.
La pianta del tè è originaria della Cina meridionale ed era ben nota fin dall'antichità nella
botanica e nella medicina. Si attribuivano infatti a questa pianta importanti
proprietà terapeutiche quali quella di offrire sollievo alla fatica, allietare
l'animo, rafforzare la volontà, e guarire problemi di vista. In ambiente religioso,
dove trovò una duratura collocazione nei secoli, le foglie della sua pianta
venivano considerate tra l'altro un ingrediente fondamentale di quell'elisir
di lunga vita invano vagheggiato dai monaci taoisti. I monaci buddhisti inoltre
attribuirono agli infusi preparati col le foglie di tè una ulteriore proprietà:
quella di favorire la concentrazione.
Di fatto proprio i monaci se ne servivano estensivamente durante le lunghe
ore di meditazione per combattere la sonnolenza. L'uso del tè come bevanda
era certamente assai diffuso in oriente. La ricetta originaria, primitiva e
assai complessa, prevedeva una lista di ingredienti e una modalità di preparazione
del tutto particolari. Secondo un'antica ricetta cinese le foglie di tè venivano
cotte a vapore, pestate in un mortaio e poi di esse si faceva un panetto che
veniva bollito con riso, zenzero, sale, buccia di arancia, spezie, latte e
qualche volta si aggiungevano le cipolle. Il sale fu il primo ingrediente ad
essere eliminato per sempre e la ricetta subì nel corso dei secoli modifiche
e semplificazioni, ma è probabile che il Giappone abbia conosciuto il tè secondo
una ricetta simile a questa.
Il tè giunse in
Giappone per la prima volta intorno al X secolo ma fu il XIII secolo
a testimoniarne la diffusione a seguito dello sviluppo della dottrina
Zen, una forma di buddhismo contemplativo
mutuata dalla Cina. La tradizione attribuisce al monaco buddhista
Eisai (1141-1215) il merito di aver introdotto il tè in Giappone.
Si narra che Eisai avesse trascorso un certo periodo in Cina studiando
lo Zen e che al suo ritorno in Giappone avesse portato con sé i
semi di quella pianta magica e che avesse iniziato a coltivarla
nel giardino del monastero. Al pari dei suoi antenati cinesi egli
era convinto delle svariate proprietà officinali della pianta.
Fu solo in un momento successivo però che il tè si diffuse come
forma di intrattenimento, sia per gli ospiti del monastero che
per gli stessi monaci. E in qualità di intrattenimento dunque il
tè si trasformò presto in teismo, ovvero culto del tè, il Chanoyu
(letteralmente "acqua per il tè"), e avvicinandosi sempre più all'arte
cominciò a dissociarsi dall'ambiente esclusivamente monastico.
La cerimonia del tè venne dunque a rappresentare il nesso tra la vita e l'arte,
tra il sacro e il profano. Essa è essenzialmente "il culto fondato sull'adorazione
del bello tra i fatti sordidi dell'esistenza; è l'adorazione dell'imperfetto,
in quanto è un vago tentativo di realizzare qualcosa di possibile in questa
cosa impossibile che è la vita". Le connessioni del tè con il buddhismo,
soprattutto con lo Zen, sono molteplici e non è un
caso che siano stati i monaci i primi ad interessarsi attivamente a questa
bevanda. Il tè con il suo tipico gusto lievemente amarognolo che rasserena
e chiarifica, ben si adattava allo spirito austero della vita monastica.
Il Sado, la via del tè, nella sua sobrietà rappresentava quella costante ricerca
della semplificazione che è tipica dello Zen e dallo Zen mutuava il suo peculiare
senso estetico, propriamente quella sensuale consapevolezza del Vuoto espressa
dal concetto di Wabi. Il Chanoyu si diffuse a partire dal XV secolo grazie
ad altri monaci zen che lo adattarono ai gusti giapponesi e progressivamente
fecero di esso una forma artistica e nel contempo furono iniziatori di varie
scuole, alcune delle quali ancora oggi fiorenti.
Il tè che si usa nella cerimonia non è il comune tè in foglie che si immerge in acqua calda. Si tratta di un tè dal caratteristico colore verde brillante, finemente polverizzato e disciolto in acqua calda con un frullino di bambù. Ne risulta una bevanda densa, leggermente spumosa, da un caratteristico sapore amarognolo assai diverso da quello del tè comune. Uno scrittore cinese lo ha infatti poeticamente definito "spuma di giada liquida".
La cerimonia del tè si divide in tre momenti distinti:
- Kaiseki un pasto leggero consumato prima del tè;
- Koicha il tè denso;
- Usucha il tè leggero.
La cerimonia nella sua interezza richiede molte ore per cui, riservando la cerimonia completa alle occasioni speciali, generalmente ci si limita al solo momento dell'Usucha. Un elaborato codice di etichetta regola tutte le fasi della cerimonia a partire dal numero di giorni di anticipo con cui si estende un invito (generalmente non più di cinque), al rituale lavaggio delle mani prima di accedere alla sala del tè, al posto da occupare durante la cerimonia, sia per gli ospiti che per il padrone di casa, alla designazione dell'ospite d'onore, al modo di servire e di bere il tè. La rigida osservanza delle regole formali altro non è che un modo per assicurare che nulla di imprevisto turbi la decorosa serenità e armonia di spirito associata alla cerimonia stessa.
L'Usucha e il Koicha rappresentano visivamente due momenti distinti della cerimonia e il rituale ad essi associato è infatti diverso. Il Koicha prevede l'uso di un'unica tazza da cui ogni ospite beve solo pochi sorsi. Il protocollo prevede che prima di portare la tazza alle labbra la si ammiri; dopo aver assaggiato il tè ci si complimenti per il sapore e poi si bevano ancora un paio di sorsi prima di passare la tazza all'ospite vicino avendo accuratamente asciugato con un tovagliolo la parte da cui sia ha bevuto. Finito il giro è possibile che l'ospite più importante chieda di ammirare nuovamente la tazza per apprezzarne la qualità. Nel caso dell'Usucha il protocollo è leggermente diverso. Ogni ospite infatti beve tutta la tazza di tè, poi con le dita asciuga il bordo e si asciuga le mani con un tovagliolo, e restituisce la tazza al padrone di casa che la lava con acqua calda e dopo averla asciugata la riempie di nuovo per servire un altro ospite. La tazza viene data all'ospite presentando la parte più bella. L'ospite a sua volta avrà cura di girarla in modo da non bere dalla parte migliore. Il tè, divenuto cerimonia, si accompagnò a nuove consapevolezze in campo artistico-architettonico e non mancò di influenzare, con il suo amore per la semplicità e la sobrietà, la vita di tutti i giorni.
La popolarità della cerimonia nel XVII secolo fu responsabile del grande impulso dato allo sviluppo della ceramica, e in particolar modo a quella usata per i tè. Nacquero molte scuole, ognuna rispondente a dei precisi canoni estetici, ognuna riflettente la filosofia ed il gusto di un particolare Maestro. Le tazze Raku, originarie di Kyoto, furono quelle che incontrarono più successo tra gli intenditori. Esse sono piacevoli al tatto e ispirano serenità nella loro peculiare semplicità ed elegante sobrietà decorativa. Generalmente non sono perfettamente rotonde ma sono fatte in modo da essere tenute con entrambe le mani, come è consuetudine bevendo il tè. Il bordo superiore non è perfettamente liscio ma è ondulato, così da offrire una sensazione piacevole quando portato alle labbra. La base in genere non è invetriata, lasciando così vedere il tipo di argilla di cui è fatta la coppa. Non presentano un motivo decorativo preciso, ma la decorazione è creata dalla invetriata e dal gioco di colori naturali e di contorni.
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